9 Settembre 2015
In
Rassegna stampa
Roma, 9 settembre 2015 – «IN GENERALE, non mi fa paura l’errore giudiziario, perché ci può stare. I giudici possono anche sbagliare facendo bene il proprio dovere, pur essendo meticolosi e analitici. Quello che non ci sta sono ‘le clamorose defaillances’, le ‘amnesie investigative’, le ‘colpevoli omissioni di attività d’indagine’. Non è un problema di norme, ma dei protagonisti della giustizia. Se si trovano nei brogliacci delle intercettazioni offese agli intercettati («fanno le stronze»), com’è accaduto in questo processo, allora il problema non sta nelle leggi. La sentenza offre spunti anche per valutare profili di eventuale responsabilità di alcuni protagonisti. Il procuratore generale presso la Corte di Cassazione e i ministri competenti potrebbero approfondire questi aspetti».
Giulia Bongiorno, l’avvocato di Raffaele Sollecito non perdona e parla della sentenza della Cassazione, che ha assolto per sempre Amanda e Raffaele, come di uno straordinario atto di coraggio.
Quindi ci vogliono procedimenti disciplinari per evitare che la storia di questo processo non resti una pagina volante di giustizia?
«La sentenza è aderente agli atti e non parla per caso di errori clamorosi. Credo sia possibile e utile approfondirli. Le funzioni dei magistrati, come quelle degli investigatori, sono delicatissime: chi non è all’altezza è giusto che non segua in futuro questo tipo di inchieste».
Pensa di attivare la responsabilità civile dei magistrati?
«È una delle possibilità previste dall’Ordinamento. Per adesso ci concentreremo sull’istanza per ingiusta detenzione, anche se il tipo di danno subìto da Raffaele è assolutamente irreparabile. Questo ragazzo è stato in carcere per quattro anni nella fase più cruciale della sua vita e la sua immagine proiettata in tutto il mondo come quella di un assassino».
E quale può essere una cifra? «È difficile indicare una cifra adeguata in un caso del genere, comunque il massimo previsto dal codice è 516mila euro».
Cosa lascia questa sentenza alla storia del processo?
«Che questo girone infernale, in cui si sono trovati i due imputati, poteva essere evitato».
Cosa cambia nel panorama giudiziario con questo processo. C’è un prima e un dopo?
«Spero che, calato il sipario su questo processo, resti memoria della sofferenza che ha cagionato e della importanza di coltivare il dubbio. A prescindere da questa vicenda, la fase investigativa è fondamentale. A volte si dimenticano le tecniche tradizionali della investigazione: l’analisi meticolosa, la ricerca dei riscontri, la individuazione di piste alternative. Vorrei aggiungere che il magistrato dovrebbe avere sempre il coraggio, ove si renda conto di aver imboccato una strada sbagliata, di tornare sui propri passi. Contesto l’abuso che oggi si fa dello strumento della custodia cautelare: chi arriva al processo da detenuto viene spesso guardato già come colpevole. La pena deve essere scontata dopo il processo e solo quando si ha certezza della responsabilità penale».
L’ex procuratore di Prato, Piero Tony ha parlato di protagonismo di alcuni magistrati…
«Non so se gli errori siano stati frutto di protagonismo. Soprattutto, ha pesato una ‘sentenza di condanna’ definitiva scritta dopo appena tre giorni. Oggi, troppo spesso, si cerca di chiudere in fretta le inchieste e ci si innamora un po’ troppo del primo sospettato».
Però c’è un passaggio della sentenza in cui i giudici credono alla presenza, quantomeno di Amanda sul luogo del delitto. Cosa significa a suo avviso?
«Sottolinea ancora di più l’errore. Se Amanda può avere avuto un ruolo è stato da spettatrice e anche su questo profilo vi è stata una carenza investigativa. La sentenza insiste soprattutto sulla granitica certezza della assenza dei due nella stanza di Meredith»
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